Friday, December 18, 2009

Lo spaventapasseri

a mia sorella

Dopo molti mesi oggi mi sveglio
nella dolcezza degli aranci. Fiori bianchi
ne copriranno i rami nelle settimane che verranno,

finché i fiori non diventeranno frutti,
e le api ronzeranno sin dall’alba
finché il sole non si poserà.
È tempo di svegliarmi dal mio sogno.
Questi ultimi giorni ho ascoltato il fattore
bardare i cavalli, arare la terra, preparare i solchi
che accolgono e proteggon le sementi.
In queste notti, anche se da qua non posso vederla,
la luce del soggiorno si spegnerà coi primi grilli

e si riaccenderà coi primi galli.

Domattina il fattore con la moglie e i figli
entreranno qui cercandomi; entreranno ridendo
e mormorando come ogni anno. Ho scordato le facce

dei bambini. La bambina, quasi una donna
questa primavera,
con i suoi seni come meloni di maggio,
vorrà rammendarmi ed infilarmi un abito nuovo
come se fossi la bambola con cui ha giocato
tutto l’inverno, ma suo padre si opporrà,
perché è il mio destino essere brutto e spaventoso.
Ma lo stesso, in questa soffitta dove vengo
sempre riportato a nuova vita,
ci saranno da riparare i danni inflittimi dai roditori
e dal rigore degli anni, che mi passano sopra –
a me, allo spaventapasseri.
Aspetto sempre ansiosamente questo momento,
le piogge torrenziali di marzo,
la luce che ogni giorno si allunga in questo spazio,
il canto degli uccelli che ritornano
(come guardano passare le allodole gli uccelli in gabbia!)
e il verde delle ciliege acerbe, ancora amare.

Oggi, svegliandomi di nuovo,
se penso ai mesi che verranno e passeranno
nel lento processo di tutte le cose mortali,
provo un brivido leggero quando sento l’acqua correre

nel ruscello sul fianco della casa,
profonda nel suo letto oscuro,
che porta con sé chiocciole e immondizia
perché anche noi spaventapasseri abbiamo un cuore
e ci chiediamo dove va l’acqua dei fiumi.

***

I fulmini come lampi d’argento
hanno illuminato la notte,
e per la prima volta in tanti anni di estate
ho provato timore e un brivido leggero.
Giù per le guance la pioggia bagna il mio volto.
Chi potrebbe capire il pianto di uno spaventapasseri?

Da mesi sono appeso qui,
senza poter muovere la testa, condannato a fissare
lo stesso orizzonte,
a sentire che la brezza estiva mi spezzetta a poco a poco,
e che leggere tempeste cercano invano di strapparmi
il mio cappello –
senza di esso non assomiglierei più al fattore
e forse gli uccelli dimenticherebbero le
inutili battaglie di questi anni
e si avvicinerebbero abbastanza da sventagliarmi
con le loro ali.
Non che mi temano; non che abbiano paura di me.
La paura la conosce solo chi è immobile, chi non vola.

Li ho visti avvicinarsi mese dopo mese
cercando semi e vermi in aprile,
attaccando le foglie tenere in maggio,
aspettando il fiore, finché in giugno non cresca il frutto
e in agosto la vite sia un’offerta nella mano,
un invito a spegnere la sete vorace dell’estate.
Anche così, questa vita inclemente,
fatta di continue umiliazioni, la preferisco
al granaio, alla soffitta oscura,
all’oblio tra le cianfrusaglie e gli stracci consunti.
Meglio essere appeso qui
che non poter vedere il sole, né l’orgogliosa luna,
né gli astri.
Qui almeno odo il canto degli uccelli,
ascolto le loro gioie e i loro affanni
nello stormire dei rami.
Ascoltandoli parlare tra di loro posso immaginarmi il mare,
perché per anni ed anni ho visto i gabbiani
bianchi e flemmatici
disdegnare i frutti della terra. Essi sono creature incantate

dall’acqua, e solcano i cieli.
O potessi essere una sirena e non un servo su di un piolo…

Potessi esser io a scegliere le stagioni
e non loro prigioniero.
Quando il calore di questa stagione sarà una benedizione
sulla riva dell’oceano, io starò facendo la guardia ai frutti
che posso solo odorare, perché non sono
niente più di uno schiavo degli uomini.

***

È luglio ormai, i miei occhi sono affaticati da tanto verde
e dal colore rossiccio della terra. Ha cominciato
a fare più caldo
e le piogge sono scarse ma torrenziali.
Le ciliegie, le pesche e le susine sono quasi mature;

ed io sento necessità di qualcuno o di qualcosa,
di qualcosa di più del contatto
del fattore che mi sistema, del gracchiare degli uccelli,
delle carezze degli elementi.
Sì, penso pure ai viandanti lungo le strade,

ai loro destini simili al mio,
e vorrei parlare le loro lingue, incoraggiarli, dir loro ciao.

***

A fine agosto comincia la vendemmia
ed in settembre si scatenano le piogge;
ed ogni giorno gli alberi e la terra, ormai spogli,
rimangono come me – più soli.
Tra poco gli uccelli cominceranno
ad emigrare nuovamente,
con lo stomaco pieno del rosso della frutta,
come se portassero nelle viscere un carico di liquidi rubini.

Verrà il giorno in cui io sarò il solo signore
di questo campo vuoto
e non ci sarà nulla cui stare attenti, nessuno da terrorizzare
col mio disordine. Verso la fine di settembre le notti

si faranno più chiare e trasparenti,
le fasi della luna non sembreranno tanto urgenti
ed io resterò appeso qua, finché l’ultimo frutto
non sarà stato raccolto. Allora, una mattina
o forse meglio un pomeriggio
prima di dar per terminato il lavoro quotidiano,
il mio fattore mi tirerà giù e mi porterà alla mia caverna
come un orso docile allo zoo.
Passeranno giorni in cui resterò sveglio,
con gli occhi sbarrati nella notte, guardando i topi
mangiarmi le budella, e gli scarafaggi entrarmi nel cervello.

Poi verrà la stanchezza. Il silenzio.
Finalmente comincerò a sognare la prossima primavera,
le piogge fredde, e il giorno in cui
mi tireranno su dalle mie rovine
e mi metteranno sul mio piolo ed io potrò
salutare lo spaventapasseri
della fattoria di fronte,
che si sveglia anche lui.
Ad inizio ottobre dalle notti verrà un raccolto di stelle.

In novembre verrà la morte
ed io sarò il suo anfitrione.

Published in POESIA (Italy)
Traduzione di Antonio Della Rocca

0 comments: