Friday, December 18, 2009

Ricordi

Ricordo che al mio risveglio
rami frondosi di lillà
entravano dalla finestra.
Ricordo l’odore persiano delle rosacee
e come, quando scostavo un grappolo di lillà,
la valle, il cielo, i fiori del bosco,
le api e il sole brillavano;
il fiume scintillava
come un viale acquatico d’argento,
e navi con vele come veli da sposa
lo solcavano.
Ricordo le scogliere in distanza
verdi e rugose come la coda
di un’iguana gigantesca.
Ricordo l’eccitato pigolio delle rondini
e le loro demenziali piroette aeronautiche.
Ricordo il paesaggio affabile, addomesticato,
e la brezza tra gli alberi di mele,
dolce come una lingua appassionata.
Ricordo come le mie carni gridavano,
“Oggi, in questo istante, sei amato ed ami.”

Ricordo come all’ora della sera,
nel punto più lontano di Manhattan,
l’Hudson passa
tra Ellis Island e la Statua della Libertà.
Ricordo che, di spalle ad un iperbolico tramonto,
le torri di vetro di Wall Street,
misteriose e mistiche come torri millenarie,
nel brillio della loro dorata prepotenza,
sono anthurium smisurati
che si accendono d’oro e d’argento, di turchino
e di smeraldo.
Ricordo che quest’isola,
in cui ho assaporato ogni piacere,
non è la mia casa.
Ricordo di aver osservato da un quarantesimo piano
i gabbiani planare tra i grattacieli,
e un elicottero simile a un’ape meccanica
atterrare su di un tetto come fosse una corolla.

Ricordo che in una notte insonne,
sdraiato su di un sofà,
guardavo da una finestra
le magnolie in fiore
e la luna bianca come un sudario.
Ricordo i fantasmi sfuggenti
che danzavano sulle punte
in circolo, sul bordo del bosco
ed attorno ad un falò di luce bianca.

E ricordo una distesa di zucche mature,
come un campo di battaglia di lune cadute.
Mi ricordo di essermi alzato dal sofà,
mi vedo aprire la porta e camminare sul sentiero.
Mi ricordo che gli uccelli notturni
gorgheggiavano un invito a cantare alla luna.
“Non ti ci azzardare, idiota” mi disse infuriata
la voce selenita.
Ricordo che le risposi sorpreso:
“Luna, non essere ingrata: ti ho cantata
in tutte le mie notti di veglia.”
Ricordo la lunga lista di improperi
che la luna rivolse a Saffo e a Lorca,
a Cavafis, Shelley e Keats,
a Silvia Plath ed a Leopardi.

Ricordo una quantità di cose e di immagini:
all’ora della siesta,
vedo mia madre tagliare le unghie dei piedi
al suo benamato.
In quella posa mia madre pareva Maria Maddalena.

Altre volte mi ricordo di Giulio Cesare, il romano.
Ricordo che il mese di luglio,
quando tutto è verde e l’universo canta,
porta il suo nome.
Ricordo come lo chiamavano i romani
uomo di tutte le femmine
femmina di tutti gli uomini.
Ricordo che fu aristocratico, playboy e soldato.
Ricordo che passò il Rubicone, sconfisse Pompeo e disse:

ma lo sanno tutti ciò che disse!
Ricordo che fu dittatore a vita,
che i suoi compari lo assassinarono;
che combatté cinquanta battaglie e massacrò milioni,
che credeva nelle previsioni astrologiche
ma non diede ascolto alla profezia della sua morte.
Mi ricordo che Bruto
lo pugnalò all’inguine:
che morendo disse:
ma che importa ciò che disse!

Ricordo tutto questo e molto ancora.
Ricordo migliaia di gesti, centinaia d’uomini
il cui cuore palpitò sul mio.
Quel che ricordo non è un collare,
un pendente con una chiusura perfetta,
un braccialetto che adorna la mano
che smuove le montagne,
una catena attorno ad un collo che è stato amato
ma non a sufficienza.

Ricordo tutti gli amori e gli odi.
Non ricordo invece il momento in cui nacqui,
né come fu che concepii la mia prima poesia.
E non voglio ricordare il mio volto e me stesso, soli
nell’affrontare uno specchio.
Ricordo che la morte è il non ricordare.
Ricordo, ergo sono.

Published in POESIA (Italy)
Traduzione di Antonio Della Rocca

La mia notte con Federico García Lorca

(secondo Edouard Roditi)

Accadde a Parigi.
Pepe mi invitò a cena
con un tale Federico
che era di passaggio per New York.
Io avevo diciannove anni.
Federico undici di più
ed era appena uscito
da una relazione in Spagna
con uno scultore
che molto lo aveva maltrattato.
Federico ebbe solo due amanti,
lui detestava le checche promiscue.

Eravamo Gemelli entrambi.
Siccome per lui l’astrologia
era molto importante,
Federico si interessò a me.
Parlavamo spagnolo.
Io lo avevo appreso
da mia nonna, un’ebrea
sefardita che mi aveva
insegnato termini
del XVI° secolo.
A Federico tutto ciò
piaceva molto.

Abbiamo bevuto molto, moltissimo
vino quella notte.
Al mattino, al risveglio,
la sua testa giaceva sui miei capezzoli.
Centinaia di persone
mi hanno chiesto i dettagli:
A letto Federico era fantastico?
Do sempre la stessa risposta:
Federico era emotivo
e vulnerabile: per lui
la cosa più importante non era il sesso,
ma la tenerezza.

Non l’ho mai più visto.
Se n’è andato a New York
e poi a Cuba e in Argentina.
Più avanti, il secondo amore
della sua vita fu assassinato
mentre difendeva la Repubblica.

Tutto ciò accadde a Parigi
quasi sessant’anni fa.
Fu solo una notte d’amore
ma é durata tutta la mia vita.

Published in POESIA (Italy)
Traduzione di Antonio Della Rocca

Elegia del cigno

Adagiato su una sedia a sdraio
mi commuove l’umiltà dell’oceano,
le distanze che ha percorso
per sciorinarsi ai miei piedi in riccioli spumosi.
Con l’alta marea iridescenti ondulanti serpenti
si formano sotto un’epidermide color acquamarina.
Il cielo è una splendente cupola scarlatta;
l’imbrunire primaverile, un cliché perfetto.

Nel caldo splendore del sole che si posa
le immagini sono serene, pacate, spoglie di ogni urgenza.

La pace di questa docile quiete
mi induce a chiudere gli occhi,
ed ecco riappare il vecchio cigno bianco
che ieri mi ha incantato nel crepuscolo.
Lo vedo tendere il collo verso il cielo,
aprendo il becco brevemente
per trafiggere il mio cuore
con un canto desolato.
E, nell’oscurità circostante,
ascolto il disperato sventolio delle sue piume spettinate

quando salpa verso il purpureo sudario del suo destino.

Published in POESIA (Italy)
Traduzione di Antonio Della Rocca

Lo spaventapasseri

a mia sorella

Dopo molti mesi oggi mi sveglio
nella dolcezza degli aranci. Fiori bianchi
ne copriranno i rami nelle settimane che verranno,

finché i fiori non diventeranno frutti,
e le api ronzeranno sin dall’alba
finché il sole non si poserà.
È tempo di svegliarmi dal mio sogno.
Questi ultimi giorni ho ascoltato il fattore
bardare i cavalli, arare la terra, preparare i solchi
che accolgono e proteggon le sementi.
In queste notti, anche se da qua non posso vederla,
la luce del soggiorno si spegnerà coi primi grilli

e si riaccenderà coi primi galli.

Domattina il fattore con la moglie e i figli
entreranno qui cercandomi; entreranno ridendo
e mormorando come ogni anno. Ho scordato le facce

dei bambini. La bambina, quasi una donna
questa primavera,
con i suoi seni come meloni di maggio,
vorrà rammendarmi ed infilarmi un abito nuovo
come se fossi la bambola con cui ha giocato
tutto l’inverno, ma suo padre si opporrà,
perché è il mio destino essere brutto e spaventoso.
Ma lo stesso, in questa soffitta dove vengo
sempre riportato a nuova vita,
ci saranno da riparare i danni inflittimi dai roditori
e dal rigore degli anni, che mi passano sopra –
a me, allo spaventapasseri.
Aspetto sempre ansiosamente questo momento,
le piogge torrenziali di marzo,
la luce che ogni giorno si allunga in questo spazio,
il canto degli uccelli che ritornano
(come guardano passare le allodole gli uccelli in gabbia!)
e il verde delle ciliege acerbe, ancora amare.

Oggi, svegliandomi di nuovo,
se penso ai mesi che verranno e passeranno
nel lento processo di tutte le cose mortali,
provo un brivido leggero quando sento l’acqua correre

nel ruscello sul fianco della casa,
profonda nel suo letto oscuro,
che porta con sé chiocciole e immondizia
perché anche noi spaventapasseri abbiamo un cuore
e ci chiediamo dove va l’acqua dei fiumi.

***

I fulmini come lampi d’argento
hanno illuminato la notte,
e per la prima volta in tanti anni di estate
ho provato timore e un brivido leggero.
Giù per le guance la pioggia bagna il mio volto.
Chi potrebbe capire il pianto di uno spaventapasseri?

Da mesi sono appeso qui,
senza poter muovere la testa, condannato a fissare
lo stesso orizzonte,
a sentire che la brezza estiva mi spezzetta a poco a poco,
e che leggere tempeste cercano invano di strapparmi
il mio cappello –
senza di esso non assomiglierei più al fattore
e forse gli uccelli dimenticherebbero le
inutili battaglie di questi anni
e si avvicinerebbero abbastanza da sventagliarmi
con le loro ali.
Non che mi temano; non che abbiano paura di me.
La paura la conosce solo chi è immobile, chi non vola.

Li ho visti avvicinarsi mese dopo mese
cercando semi e vermi in aprile,
attaccando le foglie tenere in maggio,
aspettando il fiore, finché in giugno non cresca il frutto
e in agosto la vite sia un’offerta nella mano,
un invito a spegnere la sete vorace dell’estate.
Anche così, questa vita inclemente,
fatta di continue umiliazioni, la preferisco
al granaio, alla soffitta oscura,
all’oblio tra le cianfrusaglie e gli stracci consunti.
Meglio essere appeso qui
che non poter vedere il sole, né l’orgogliosa luna,
né gli astri.
Qui almeno odo il canto degli uccelli,
ascolto le loro gioie e i loro affanni
nello stormire dei rami.
Ascoltandoli parlare tra di loro posso immaginarmi il mare,
perché per anni ed anni ho visto i gabbiani
bianchi e flemmatici
disdegnare i frutti della terra. Essi sono creature incantate

dall’acqua, e solcano i cieli.
O potessi essere una sirena e non un servo su di un piolo…

Potessi esser io a scegliere le stagioni
e non loro prigioniero.
Quando il calore di questa stagione sarà una benedizione
sulla riva dell’oceano, io starò facendo la guardia ai frutti
che posso solo odorare, perché non sono
niente più di uno schiavo degli uomini.

***

È luglio ormai, i miei occhi sono affaticati da tanto verde
e dal colore rossiccio della terra. Ha cominciato
a fare più caldo
e le piogge sono scarse ma torrenziali.
Le ciliegie, le pesche e le susine sono quasi mature;

ed io sento necessità di qualcuno o di qualcosa,
di qualcosa di più del contatto
del fattore che mi sistema, del gracchiare degli uccelli,
delle carezze degli elementi.
Sì, penso pure ai viandanti lungo le strade,

ai loro destini simili al mio,
e vorrei parlare le loro lingue, incoraggiarli, dir loro ciao.

***

A fine agosto comincia la vendemmia
ed in settembre si scatenano le piogge;
ed ogni giorno gli alberi e la terra, ormai spogli,
rimangono come me – più soli.
Tra poco gli uccelli cominceranno
ad emigrare nuovamente,
con lo stomaco pieno del rosso della frutta,
come se portassero nelle viscere un carico di liquidi rubini.

Verrà il giorno in cui io sarò il solo signore
di questo campo vuoto
e non ci sarà nulla cui stare attenti, nessuno da terrorizzare
col mio disordine. Verso la fine di settembre le notti

si faranno più chiare e trasparenti,
le fasi della luna non sembreranno tanto urgenti
ed io resterò appeso qua, finché l’ultimo frutto
non sarà stato raccolto. Allora, una mattina
o forse meglio un pomeriggio
prima di dar per terminato il lavoro quotidiano,
il mio fattore mi tirerà giù e mi porterà alla mia caverna
come un orso docile allo zoo.
Passeranno giorni in cui resterò sveglio,
con gli occhi sbarrati nella notte, guardando i topi
mangiarmi le budella, e gli scarafaggi entrarmi nel cervello.

Poi verrà la stanchezza. Il silenzio.
Finalmente comincerò a sognare la prossima primavera,
le piogge fredde, e il giorno in cui
mi tireranno su dalle mie rovine
e mi metteranno sul mio piolo ed io potrò
salutare lo spaventapasseri
della fattoria di fronte,
che si sveglia anche lui.
Ad inizio ottobre dalle notti verrà un raccolto di stelle.

In novembre verrà la morte
ed io sarò il suo anfitrione.

Published in POESIA (Italy)
Traduzione di Antonio Della Rocca

Il giardino delle delizie

a mia madre

1

Questa stagione che cala sottovoce
- come chiamarla? come chiamarne il primo giorno,

qui dove i fiori bramiscono,
dove le stagioni arrivano distrutte?

Rinchiuso per giorni interi come una orchidea,
che cresce in una serra,

era estate, era autunno,
era primavera e inverno assieme.

Ma oggi esco di nuovo in questo giardino
per percorrerne i sentieri,

ma come ha cambiato d’aspetto in pochi giorni,
ma come si è vestito per un ballo, questo
camaleonte del vento.

2

Qui vicino al mare
una brezza fredda e penetrante

arriva in una carrozza invisibile. Io mi genufletto,
con le ginocchia piantate in terra

e temo per queste piante che ho portato di lontano, temo che il primo vento dell’inverno

le riporti al loro stato naturale -
polvere alla polvere, foglia alla foglia.

Nei miei occhi la brezza seppellisce grani di giardino.
La luna in cielo non è una metafora –

col suo colore di neve, piena di buchi trasparenti,
una mezza luna di cui disconosco le fasi.

3

Lo so che l’inverno è giunto
perché la sua tenue luce mi accarezza scendendo.

Non devo sostenere battaglie contro gli elementi.
Questa è la stagione perfetta,

ed io rinuncio a logorarmi in questa mia carne.
Voglio vivere, oggi; voglio tenere tra le mie
mani l’ambrosia della luce.

Queste sono le piante del mio giardino,
così si preparano per l’inverno.

In un bel mattino con il cambio dell’aria,
con un cielo immacolato come quello d’oggi,

con un vento che soffia dal lato opposto
allo zefiro della sera,

le più forti fioriranno su verso il cielo,
le più nobili sprigioneranno essenze,

le più coscienziose daranno frutti, le più dolci
offriranno rifugio alle api ed ombra

contro il sole cocente. E quelle sagge
sussurreranno canzoni alle stelle.

4

Questo giardino è permanente. Cambiano le piante,
si biforcano i sentieri, i vecchi alberi

crollano ed io continuo a muovermi
cercando le stagioni. Oggi è solo il primo

giorno d’inverno. Fa freddo.
L’aria profuma di miele e di magnolie.

I pini conservano i nidi dell’estate,
sugli aranci già si colorano strane lampadine,

i mandarini arrossiscono,
le rose crescono tenaci,

il papiro sprofonda
le sue egizie radici,

le palme raffreddano il succo
dei loro cocchi, ed alle poinsettias occorrerà

tutto il loro sangue quando arriverà
l’ultimo giorno del calendario e la sua brina.

Canto le melanzane, i cavolfiori –
benedetti voi siate, frutta ed ortaggi.

5

Questo transitorio giardino è il giardino
delle delizie. Il giardino in cui

ho deciso che passerò il mio tempo.
Questo è il giardino dove il contatto

con la terra mi àncora alla vita,
il giardino in cui in sere come questa,

la notte, questo uccello
dalle ali oscure, mi sorprende

come un fiore che chiuda i suoi petali
per proteggere la corolla.

Questo è il giardino dove un giorno deciderò
di vivere per sempre,

in una casa circondata da fiori e piante
che crescono fino al firmamento,

un luogo senza steccati né erbe alte
dove gli uccelli possano riposare

prima di riprendere il volo.
Proprio questo è il luogo dove voglio vivere

con una grande scrivania vicino alla finestra
davanti ad un enorme susino.

Oggi tutto è pesante nella solitudine di questo verde
ed io mi sollevo come questo vento vespertino,

mi apro il passo col mio corpo,
tagliando lo splendore arancione di quest’ora.

Un giorno ritornerò a questa stagione senza fine
dove il vento mi fa lacrimare gli occhi.

Oggi voglio vivere quest’ attimo
in cui scelgo di racchiuderti nella mia memoria,

circondato da piante da piante ancor vive
prima dell’inverno,
in questa stagione che scende a visitarmi e non scompare.

Published in POESIA (Italy)
Traduzione di Antonio Della Rocca

Ode a un colibrì

Se tu fossi uno di quegli uccelli
che cantano canti millenari,
ti porterei delle briciole o forse una trappola.
Ma tu non puoi stare in gabbia
privo del tuo habitat naturale.
Sulle scale che risalgono il parco,
svolazzando tra rose ed orchidee,
giorno per giorno compiamo il rituale della nostra visita.
Nessuno annuncia il mio arrivo, né il tuo.
Ogni giorno vengo a te con un monologo diverso.
Oggi, è quello dell’amore.

Non so se tu usi promettere
che non rifarai gli stessi errori,
e che resisterai a qualsiasi battito d’ali inatteso
vicino al tuo cuore –
per questo ci avviciniamo a poco a poco.
Non ti spingi mai più in là delle rose
e quando mi guardi fisso,
i tuoi occhi paiono caverne piene di perline scure.
Sulla scalinata mentre ti parlo, mentre tu mi fai
una corte aerea
e ti avvicini, io mi blocco
tra le fucsie per osservarti;
e quando le tue ali frullano la luce meridiana
sei come un piccolo vortice che scintilla nell’aria.

Anche se non seguo i passi della tua danza
posso osservare le tue piroette tra tronco e rami.
Come l’amore, sei fugace e risplendente
e non so quale pegno sacrificale offrirti.
Perciò vengo qui ogni giorno,
sperando che tu abbia appreso a fidarti di me
e che un giorno, senza che te lo debba chiedere,
ti avvicinerai per accarezzarmi.
Gli altri passanti non possono vederti
e pensano che io stia parlando al verde infinito.
Un colibrì si lascia vedere solo dagli occhi dell’amore.
Ma tu sei bello, e la tua bellezza mi
impedisce di conoscerti.
La tua forma è dentro di me da sempre.
Quand’ero bambino volevo scalare gli alberi più alti
e prendere tra le mani i tuoi piccoli, in segno di amicizia.
Anche quando il mare serpeggiava nelle mie ossa
tu eri la promessa di qualcosa di irraggiungibile.
Nei miei sogni hai continuato a crescere.
Cogli anni ho imparato che ci si abbandona
con frequenza, dimenticandosi l’uno dell’altro –
tu per altri climi ed altre rose,
io cercando la promessa della tua bellezza
nei giardini della carne.
Sono certo che se non ci temessimo
oggi potremmo incontrarci tra i fiori
e sfidare i passanti con la nostra audacia.
Ma io non ho imparato a propiziarmi l’amore
con le offerte che l’amore esige.
Tentando di toccare le porte del cielo
ho solo imparato a distinguere i colori.
Se veramente fossi audace,
se potessi ancora credere che basta scalare un albero,
il più alto, per arrivare a ciò che ha un nome
ma è al di là delle parole,
se credessi che solo la pazzia di un gesto
potrebbe avvicinarci e portarci oltre i giorni oscuri,

senza pensare né alla morte né alla felicità,
se dopo tanti contatti con altri esseri
avessi imparato a fare le offerte che contano,
con una ghirlanda di orchidee attorno alle tempie,
verrei a te -
o mia luce di ogni giorno, o mio elicottero
verde dell’anima.
Verrei a te offrendoti il fiore più raro, il nettare
più pregiato.

Ad Amherst, le tue visite a qualcuno
che aveva scelto il silenzio come intrattenimento
suggerivano i fiori esotici del Brasile color di cocciniglia.
Un’orchidea brasiliana, ora lo so,
è il corpo che io amo,
è la tua bocca che cerca la mia senza paura
nell’oscurità o alla luce di una candela.
Oggi neppure se lo desiderassi potrei offrirti un’orchidea,

tu hai scelto di cercare altri climi,
di congelarti là sulle frontiere esterne.
Un giorno tornerai ad avvicinarti:
ed io vedrò i tuoi occhi notturni,
mi meraviglierò dell’arcobaleno del tuo piumaggio,
mi torneranno in mente i miei ricordi di bambino,
anche se adesso so che per raggiungerti
non basta credere ai miracoli,
non basta scalare la chioma
dell’albero più alto che ci abbia offerto la vita.

Published in POESIA (Italy)
Traduzione di Antonio Della Rocca

The Stranger

Dusk descends on the plaza
coated with desert dust.
We sit under the solitary tree
and drink coffee out
of miniature cups half-filled with sugar.
The hour is swollen
with jasmine.
Bands of swallows swirl
above us like airborne carpets
in the darkening sky.
The ruined buildings around the plaza
are not Roman but colonial
French, the language spoken by the men
—in twos and threes—around us
sitting at metal tables on iron chairs.
This is the time of day when Dr. Rieux,
in Camus’s The Plague, would open
the door to his empty apartment.
Far away, his wife is convalescing.
Rieux heads straight for the bathroom and soaps
his hands, that all day long have
handled dying Oranians.
But the doctor cannot wash away
the stench of death all over himself.

I haven’t come to Oran looking
For Camus—who is hated here.
He was on the wrong side of history,
or was he? I’m about to remark
on this to my companion when,
faintly at first, I hear a voice
not meant for us, but instead
for Heaven, a flute-like prayer
rising from the speaker attached
to the golden tip of the mosque.
Is it the appearance of the Pole Star,
in the wine-blue sky, the voice sings?
In four days, my mother
will be dead.

Published in Downtown Brooklyn, 2009

Escribí el más hermoso poema

de amor, te escribí un canto,
una oda a la felicidad que me embargaba
mientras yacías, dormido, a mi lado.
Escribí mi más hermoso poema de amor
para celebrar tu dulzura, tu encanto,
tu piel, las hebras de tus cabellos,
tus hombros desnudos, tu aliento
en mi cuello, el vaso de agua
que tocaron nuestros labios, tu abrazo,
tus tersos ronquidos,
las uñas de tus manos, la forma
en la cual tu labio superior,
mientras dormías, me instaba
a apresarlo en mis labios.
Empecé a escribir este poema
de amor, con mis labios,
mientras yacías a mi lado aunque bien sabía
que pronto habría un beso
y un abrazo final, una vana
promesa de llamarmos.
Pero te escribo este poema de amor
--y ningún instante de amor
me atrevo a negarlo--
porque por unas horas, a tu lado,
sentí renacer
el milagro del canto.
Te escribí el más hermoso poema
de amor, aunque sabía (o porque sabía)
que nuestro instante había terminado.

Meditación

Ese espacio de tu piel
encima del tobillo
--tu zapato se ha comido la media--
es una planicie de oro
con suaves hondonadas.
Cierro los ojos,
me imagino acariciarla
y al pisar tu carne
atravieso valles
de arenas movedizas.
Después de explorar
tu superficie--
te penetro una vena.
Linfa arriba, navego
raudales desconocidos
que no aparecen en ningún mapa
y arriesgo mi vida.
Zurco corrientes peligrosas
altas cataratas
llego al ombligo
del mundo. Allá, a millones
de años luz, parpadea
tu corazón.
Entonces salto
sobre la selva amazónica
navego los estrechos
de los Dardanelos, recorro
las estepas de Mongolia
las capas congeladas
de la tierra, escalo
las Himalayas,
las estrellas
una
a
una
mi adoración
hasta llegar
a ti.

Monday, December 14, 2009

Cardinal Heart

A brilliant red speck
sits on the denuded tree
like an ornament
from another season.

Hard to believe you
were not a sign, with Bill
in the hospital his bad heart
giving up, blood-filled
tubes sticking out
of his body, his blood
the color of your feathers.
We were in early Spring--the new
life inspired and hurt.

Some nights I barely slept.
Each dawn, along
the street where
I live, your desperate
calls awakened me.
You were calling your
mate with a song
I’d never heard before. Your
notes rippling
in the air like silver bells
making such heart-breaking
music I was reminded
of all my loves
everything that time sweeps away
the days that beat
like a heart until something
shatters then stops.

As Bill’s new heart began
to mend, growing new
roots, you left
weeks after your arrival
when the crocuses had broken
the ground and the leaves
on the trees hid the muted birds
that began to arrive.
Soon after you left,
the world was again
green not cardinal red.

Published in Bloom Magazine

Angry

with death
that has taken
Josefina, I grab
a pair of scissors
at dusk
and attack
the perfumed stems
of white bells
of basil on my porch
that, in the pregnant days
of August, attract stingers
and legions of tiny
honey bees. In the engulfing
darkness, I cut
the stems and make
a bouquet for you,
dear friend,
who died much too soon when
so many other things
take too long to die.
Let the bees go
and feed elsewhere—
not on my porch, where I mourn
you with rage.
Who needs bees,
I fume as I cut
the sweet basil flowers
to adorn my grief.

Published in Cimarron Review, 2007

Your Next Lover

No matter what other wonderful
qualities he has, your next lover
should live in an air-conditioned
place so that on sweltering
summer nights you can
tune out the wails of Manhattan,
and lie oblivious
in each other’s embrace.

Whatever your next lover’s
beliefs, you should be
tolerant of his views.
If you are not convinced
he is the love
of your life, (or even one
of the top fifty-eight)
do not be cynical
about the guy.

Please make sure your next lover
is generous not just toward you,
but toward the people
who beg for coins in the streets.
Your next lover
should not be interested
in tax cuts or welfare reform
and he should definitely
not be a Republican.

Your next lover should appreciate
your sense of humor, the way
your friends do. If you can’t
laugh with your next lover
the way you laugh with, say, Melanie
or Silvio, forget about it, you might
as well have fallen in love
with a fire hydrant or a sea urchin
because where there’s no laughter
there’s no freedom
where there is a need for locks and frontiers
there is no room for love’s bloom.

I do not mean that your next lover
should be a stand-up comedian,
a glib jerk who has to be funny
all the time. There is plenty
to be sad about, and sadness
can be a useful feeling
to artists on rainy days
and in dark November afternoons.
Some of the greatest joys
are deliciously sad —
think of the moonlit bayou of the soul
in Roy Orbison’s songs
or the way Greta Garbo stared
into the void at the end of Queen Christina.

Your next lover should
not have bad breath
his breath should
transport you like
a magic carpet gliding over
fields of verbena by the sea
in early May.

Your next lover
should be enamored
of the radiance of the night
sky, the intimacy of dawn.
He should give
you bouquets, just to remind
you how much you are loved.
When you go to sleep in
his arms, you should feel
wrapped in the blanket of the sky
on a late august night.

Now, pay attention,
this is crucial information,
your next lover should be
HAPPILY EMPLOYED and know
how to give a great
foot massage. He should be
a sex machine, full
of surprises, going down on you
in an airplane
in a cave, under a waterfall
in positions you never thought
you’d find yourself in.
When you go to the country
for a weekend with him spend
days and nights making love,
until you emerge
from your cocooon of passion
exhausted but renewed, a survivor
of the flood that swept away
your foundations. Outside
it will be a new season.
Because love is the finest
season of all, though it seldom
lasts that long.

Your next lover will wear
a bracelet of tiny rubies
that looks exactly
right on him, not just an adornment
but an expression of his
enraptured soul.

Your next lover should write you poems
on your birthdays, on your anniversaries—
no occasion is too small. He should go on
writing you poems after you’ve dumped him
for a guy with a sports car
the way I find myself writing this poem
to you—who shall remain unnamed—
impossible love of mine
you who hacks me
open from my skull to my toes
consuming flame that flares up
as I invoke your lips
sweetened with the poison of love.

If he’s any good, your next lover should
prepare you FOR THE ONE WHO’LL COME
AFTER him; because your next lover
should not be the end
of love, but just a resting place,
a subway station playing Stan Getz,
a queen-sized bed, a silken pillow,
a window that opens to a pellucid sea
a harbor from which you’ll keep
departing to other destinations
as of yet undreamt by you.

Published in Lungfull

1962

I made the kites
myself using
onion paper
the color
of dream
jungles.

With the arrival
of the trade winds
in December
I flew kites at dusk
in Recostadero Park
where Barranquilla’s
sweethearts met.

The days
flew by
like kites
in the wind.
At night,
exhausted from kite-flying,
I lay in my bed
neither boy nor man
and night-dreamed
with a kite that flew
all the way to the bloody
moon of the tropics
while below,
on planet earth where
I lived,
all the glaciers melted
all the seas overflowed
and the African continent
went up in flames.

Published in Gival Press, 2005

Don Quixote

I woke up; it was the hour
of nocturnal terrors. My head
still on my pillow—in the unsettling
darkness of my room—I thought:
“I’m old.”

I couldn’t
go back to sleep.
I slipped my bony toes
in my slippers
ragged and thread-bare
like the life I’d lived.
Like so many nights
of late, I wrapped a blanket
around my shivering frame
opened the door of my room
and slipped out of the hushed house.

Outside, the ground
was damp, the night
abloom with stars
screaming silently
as they fell toward
God knows where—but certainly
far from my barren fields.
From the barn
an owl’s gold stare
questioned me. Not my presence
in the lateness of the night--
but my entire existence.

Spring was near, I could feel
the ground turning under my feet.
Then a second thought occurred to me:
“Soon I’ll be dead; soon my flabby
flesh, my brittle bones, my dried up brain
will be enriching the soil-- the earth
will be my roof, daisies my constellations.”

“No, this cannot be the end,” I heard
myself say. “There has to be more
to life than all the stories I’ve read
everything I haven’t seen or felt
the hardness of my cold bed.”

It was then the idea came
to me: I must take
to the open road
to redress the grievances,
rectify the wrongs, amend
the errors, and reform
the abuses in the world.
“Before it gets too late,” I added,
“I have to find love.”

It took a few days to prepare
before I rode away
on my Rocinante, my neighbor Sancho
for my squire, and the lady Dulcinea
del Toboso as the compass
of my loveless heart.

The rest of the story is well-known.
But what has never been
written about before
was that instant when I woke up
in my frigid bed, stepped out in
the chilly dawn, and felt
worms stirring the ground under me
reminding me I
had one more spring to live
and it was my duty to live it.

Published in Cimarron Review, 2007

Return to the Country of My Birth

As I arrive in my old country
the smell of ripe mangoes
welcomes me.
In the fruit trees
sated birds sing:
“It’s a good season,
food is abundant,
in many flavors.”

At home awaits an e-mail
from my friend Tatiana:
“I am sad--my brother
was killed in the war.
I’ve returned from the country
of our birth to the cold north.”

Later, lured by the smell
of honeysuckle,
I walk in the garden
of the ancestral home.
The air teems with black moths.
Moistened by moon glow
the cannon balls glisten,
hibiscus offer
their lustrous red tongues.

When the moon transits
out to sea, in the high branches
vampire bats feed on
broken-necked nightingales,
and the stars’ light reveals
corpses lounging on the grass,
ruby hearts cupped
like split-pomegranates
in their hands.

Back in the house
I answer my friend’s e-mail.
“All these dead people
among the plants,
are too much for my first
night back home.
Sorry, but I
did not recognize
your brother among them.
Twenty years away,
I have forgotten
the customs of this place.”

Published in Gival Press, 2005

Friday, December 11, 2009

Cometas

En diciembre
arribaban
los vientos alisios.
Al atardecer
izaba cometas
en el Parque recostadero.
Armaba las cometas
con goma, varitas
de paleta y papel cebolla
de colores selváticos.
Los días
transcurrían raudos
como cometas
al viento.
Entrada la noche,
exhausto de correr
con las cometas
en las lomas de El Recostadero,
donde se reunían
los amantes de Barranquilla,
yacía en mi lecho
con mis ojos abiertos
y soñaba con una cometa
que me transportara
hasta la luna sangrienta
del trópico
mientras abajo, en la tierra
donde yo vivía,
los glaciares
se derretían
todos los mares
se sublevaban
y el continente de Africa
se consumía en llamas.

The Blue Hour

Sometimes it happens here
in Manhattan late in the afternoon
as a helicopter or a seagull
crosses the sky and I remember
my grandparents’ town when
the late hour was an invitation
to the bats to enter our house
like a dark invasion of tiny spaceships.

I saw that light caressing
the bricks of the building
on the other side of my window,
and I got up from the bed
where you and I lay
and I touched
January’s frost on the glass.
You asked
me for the time as if I—
like my grandfather—
had the talent to read the heavens.

It was the blue hour
in Manhattan, we were in love
and I wanted it to prolong it
so I could live in it always.

Weeks later,
on a snowy morning
I walked with you to the avenue
helping to carry your luggage.
As we waited for a taxi
—you were returning
to your city of bridges and warm stars—
I felt how irrevocable the moment was,
your eyes avoided mine. You
climbed into the cab and while
I looked in the direction in which
you were disappearing, perhaps forever,
you did not turn around
as a final punctuation mark.
At the corner nearest my house
I tripped and almost crashed
against the sidewalk.
I felt an enormous weight
on my shoulders, as if I they were
propping a brownstone;
I felt the full weight
of my fifty years.

Published in Bloom Magazine, 2007